venerdì 24 febbraio 2017

Diffamazione

Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati può sentirsi diffamato da chi lo definisca "prezzolato". La sentenza del Trib. di Genova n. 79 del 2016 ha ad oggetto un curioso caso di diffamazione attraverso facebook: sulla base di questa si è ritenuto che sia da attribuire rilievo all'offesa rivolta non ad una persona fisica determinata, ma ad un entità giuridica e di fatto, come in questo caso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati.

Massima del dott. Giuseppe Amato - Procuratore della Repubblica di Trento
Fonte: UTET/PLURIS 2016



Trib. Genova Sez. I, Sent., 25-01-2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI GENOVA

- SEZIONE PRIMA -

IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA

Dr. RICCARDO CRUCIOLI

in data 11/01/2016 ha pronunciato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

C.C. nato a G. il giorno (...) residente a G. Via F. 4/21

elettivamente domiciliato presso l'Avv. Stefano BOGLIONE del foro di Torino, con studio a Torino Via Cavalli 28 bis

Assistito e difeso di fiducia dall'avv. Angelo Fiumara del foro di Roma

LIBERO PRESENTE

IMPUTATO

del reato di cui all'art. 595 comma 3 c.p. perché comunicando con più persone mediante l'inserimento del seguente "post" sul profilo del social network Facebook intestato a C.C., offendeva la reputazione dell'Ordine degli Avvocati di Genova:

"oggi alle ore 21 su Rai Uno è in onda uno speciale sul Dott. M.S., mio legale difensore nella lotta contro i magistrati (sentenze false, spaccio di droga e festini a luci rosse), radiato ingiustamente da un ordine degli avvocati prezzolato (avete presente le puttane? Peggio, molto peggio).

Nella mia vicenda entrano in gioco personaggi di primo livello, A., S.. Tra poco saranno arrestati 50 tra magistrati, prefetti, ministri, esponenti di p.g. avvocati e commercialisti Io oltre lavoro vi darò Giustizia: avete la mia parola."

Genova 14/1/2014

PARTE CIVILE:

V.A., nato a G. il (...) (C.F. (...)), in qualità di presidente dell'Ordine degli Avvocati di Genova - costituitasi il 9/09/2015 - rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Rubino del foro di Genova

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con decreto regolarmente notificato ed emesso a seguito di querela a suo tempo presentata dal Presidente del consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Genova. C.C. era citato a giudizio per rispondere del reato di cui all'imputazione.

All'udienza del 13.7.2015 la Difesa presentava istanza di rinvio; in accoglimento, l'udienza veniva rinviata al 9.9.2015.

Nel frattempo, in data 31.8.2015, l'imputato personalmente depositava la propria lista testi.

All'udienza del 9.9.2015 venivano ammesse le prove documentali ed orali richieste, ad eccezione di quelle tardivamente richieste dalla Difesa, la quale chiedeva unicamente di ammettere - in prova contraria - la testimonianza di S.M.. Su tale ultima istanza veniva emessa ordinanza con la quale il Giudice si riservava di decidere all'esito delle ulteriori testimonianze.

All'udienza odierna erano escussi i testi dell'Accusa, C.L. (ufficiale di PG) e V.A. (Presidente del consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Genova).

All'esito veniva emessa ordinanza reiettiva della richiesta di escussione di M.S. in prova contraria, tenuto conto non solo della superfluità della sua testimonianza ai fini del decidere ma anche del certificato medico dell'anziano Giudice in pensione che attesta la sua totale incapacità a rendere testimonianza (certificato peraltro depositato anche dalla Difesa).

L'imputato - che durante l'assunzione delle prove della Pubblica Accusa ha tenuto un atteggiamento di sfida ed è stato più volte ripreso - si sottoponeva ad esame, chiedendo poi di rilasciare spontanee dichiarazioni. Tale diritto veniva esercitato con ampiezza da C., che spingeva le proprie affermazioni anche oltre lo stretto necessario, descrivendo l'ambiente nel quale - a suo dire - si sarebbero verificati soprusi ai suoi danni da parte degli Avvocati genovesi, del consiglio dell'Ordine e di alcuni Giudici di questo Tribunale.

Infine le parti procedevano a breve discussione.

La complessiva istruttoria ha consentito di chiarire al di là di ogni ragionevole dubbio che:

- C. ha pubblicato su internet le frasi di cui al capo di imputazione;

- la pagina di "facebook" nella quale è stato "affisso" il "post" è infatti creata dal prevenuto ed è in suo esclusivo controllo e dominio;

- la pagina è "pubblica" nel senso che ciascun utente iscritto a facebook può accedervi anche senza essere stato in precedenza accettato come "amico" da C.; dunque la pagina ed il suo contenuto sono raggiungibili potenzialmente da chiunque abbia un accesso ad internet;

- C. non sono ha dichiarato di aver pubblicato tali frasi ma ne ha rivendicato con orgoglio la paternità, ripetendo in aula - sebbene con frasi meno volgari e ingiuriose- il medesimo concetto.

Sul fatto, dunque, che sia stato l'imputato a ideare, scrivere e pubblicare a mezzo internet la frase "ordine degli avvocati prezzolato (avete presente le puttane? Peggio, molto peggio)" non sussiste alcun dubbio.

Alcun dubbio sussiste neppure sul fatto che tali frasi siano oggettivamente diffamatorie.

Si osserva al proposito:

- l'espressione "prezzolato" e quella, ancor più volgare ed offensiva, di "puttana", rivolta al consiglio dell'Ordine degli Avvocati nel suo insieme contiene certamente una carica lesiva del decoro e del prestigio della persona offesa, in sostanza accusata di riceve denaro o altri vantaggi (anche non solo economici) per tenere un determinato comportamento e per (s)vendere i propri servigi;

- integra la lesione della reputazione altrui non solo l'attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalia generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio (cfr Cass. Sez. 5, Sentenza n. 18982 del 31/01/2014 e Sez. 5, n. 40359 del 23/09/2008);

- ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, e che comunque implica l'uso consapevole, da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (Cass Sez. 5, Sentenza n. 8419 del 16/10/2013);

- la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 24431 del 28/04/2015).

Chiarito quanto sopra è poi il caso di effettuare alcune notazioni di contorno, seguendo le numerose eccezioni ed argomentazioni spese dalla Difesa.

In primo luogo si deve osservare che la querela è stata sporta dal legale rappresentante pro tempore del consiglio dell'Ordine. A nulla rileva l'assenza di indicazione della fonte del potere rappresentativo, poiché: "la querela priva dell'enunciazione formale della fonte dei poteri di rappresentanza conferiti al legale rappresentante della persona giuridica non è nulla, in quanto la sua inefficacia consegue solo alla mancanza di un effettivo rapporto fra il querelante e l'ente" (cfr Cass. Sez. 2, Sentenza n. 39839 del 27/06/2012). Al proposito non è in discussione (né è stato oggetto di richiesta di alcuna prova da parte della Difesa) che l'Avvocato Vaccaro fosse, al momento della presentazione della querela, il Presidente del consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Genova.

In secondo luogo, il consiglio ut supra nominato ha la facoltà di promuovere azione legale, anche in sede penale, nei confronti di chi lede l'immagine non solo del consiglio in sé e per sé considerato ma anche di un numero indefinibile di Avvocati: "le espressioni denigratorie dirette nei confronti di singoli appartenenti ad un'associazione od istituzione possono, al contempo, aggredire anche l'onorabilità dell'entità collettiva cui essi appartengono, entità alla quale, conseguentemente, anche compete la legittimazione ad assumere la qualità di soggetto passivo di delitti contro l'onore. Ne consegue che, quando l'offesa assume carattere diffusivo (nel senso che essa viene ad incidere sulla considerazione di cui l'ente gode nella collettività), detto ente, al pari dei singoli soggetti offesi, è legittimato alla presentazione della querela ed alla successiva costituzione di parte civile e ad esso compete eventualmente la facoltà di proporre impugnazione nelle ipotesi particolari previste dall'art. 577 cod. proc. pen. (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la qualità di persona offesa -con possibilità di costituirsi parte civile e di proporre la impugnazione sopra specificata- ad un Consiglio dell'ordine degli avvocati, avendo il giornalista formulato giudizi negativi e denigratori nei confronti di "migliaia di avvocati", appartenenti al predetto ente, ed avendone indicati alcuni come "manutengoli della camorra")" (cfr Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1188 del 26/10/2001).

In terzo luogo, non è possibile ritenere presente la scriminante del diritto di critica. L'ambito di operatività di tale diritto nei delitti contro l'onore è stato oggetto di molteplici statuizioni della giurisprudenza. Si è così stabilito che, pur assumendo il requisito della verità del fatto un rilievo affievolito rispetto alla diversa incidenza che esso svolge sul versante del diritto di cronaca (Sez. 5, n. 4938/11 del 28/10/2010, Simeone, Rv. 249239), è tuttavia indispensabile che sia rispettato un nucleo di veridicità (Sez. 5, n. 43403 del 18/06/2009, Ruta, Rv. 245098), posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne è investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (Sez. 5, n. 7419/10 del 03/12/2009, Cacciapuoti, Rv. 246096).

Altro requisito indispensabile perché possa utilmente invocarsi la scriminante in discorso è costituito dal rispetto del limite della continenza. In tale ottica si è riconosciuto che la critica può anche tradursi nell'uso di espressioni oggetti va mente offensive della reputazione altrui, che tuttavia non trova giustificazione allorquando trasmodi in una vera e propria aggressione verbale del soggetto criticato, risolvendosi nell'uso di espressioni gravemente infamanti e inutilmente umilianti (Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessi, Rv. 250174; Sez. 5, n. 3047/11 del 13/12/2010, Belotti, Rv. 249708; Sez. 5, n. 29730 del 04/05/2010, Andreottì, Rv. 247966).

Nel caso in esame la veridicità della vicenda processualpenalistica di S. e l'asserita ingiustizia della cancellazione dall'albo degli avvocati nulla hanno a che vedere con le affermazioni diffamatorie utilizzate da C.. Dunque la (peraltro eventuale) dimostrazione della veridicità della predetta ingiusta cancellazione dall'albo non avrebbe alcun riverbero sulle successive affermazioni diffamatorie. L'insulto gratuito non può certo essere scriminato dalla veridicità di un altro fatto.

In quarto luogo non è possibile ritenere presente, nel caso in esame, la fattispecie astratta della c.d. "critica politica". Infatti non vi è alcuna prova che l'imputato abbia in qualche modo esercitato le proprie attività a mezzo facebook per fini politici. C., che ha pure affermato il contrario dilungandosi su sue presunte frequentazioni altolocate sia in ambito politico che delle Forze Armate, non ha fornito la prova di una propria iscrizione a partiti politici né di aver preso parte a elezioni e/o ad attività elettive o politiche né ancora di aver pubblicato nel predetto sito internet lettere o messaggi con un contenuto politico. Peraltro la foto di C. assieme a G.A., che campeggia nella pagina facebook dell'imputato, non ha alcuna valenza politica e non può essere certamente utilizzata come veicolo per l'esercizio di critica politica.

Di certo non qualifica come "critica politica" una qualunque affermazione volgare o aggressiva sol perché chi la profferisce afferma di essere un "politico" o si è fatto ritrarre una o più volte con esponenti di un qualche partito politico.

In quinto luogo, anche a voler ritenere per assurdo esistente una qualche finalità politica nell'agire di C., non vi è chi non veda come le frasi di cui al capo di imputazione non hanno alcun riferimento "politico" o attinenza a ragioni di tutela della collettività. Si tratta infatti di epiteti volgari e aggressivi utilizzati per finalità proprie del prevenuto, senza alcun collegamento con fatti "politici". Peraltro è noto che anche la critica politica non esime l'autore delle frasi dal mantenersi entro ben determinati limiti, non potendo certamente la "politica" essere utilizzata per aggredire in modo volgare, violento e ingiurioso gli avversari o anche solo gli antagonisti. Infatti;

"in tema di diffamazione a mezzo stampa, non ricorre l'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica, che pure tollera l'uso di espressioni forti e toni aspri, ove tali espressioni siano generiche e non collegabili a specifici episodi, risolvendosi in frasi gratuitamente espressive di sentimenti ostili" (Cfr Cass. Sez. 5, Sentenza n. 48712 del 26/09/2014);

"sussiste l'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica qualora l'espressione usata consiste in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni non obiettive, purché non trasmodi in un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale dell'avversario" (Cfr Cass. Sez. 5, Sentenza n. 46132 del 13/06/2014)

"il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta - e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione - ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti". (Sez. 5, Sentenza n. 31669 del 14/04/2015). Al proposito sarebbe stato ben possibile criticare il consiglio dell'Ordine esprimendo disapprovazione ed anche utilizzando espressioni forti (nel caso dell'ultima sentenza è stato infatti ritenuto possibile indicare "incompetente" un architetto non ritenuto capace) ma di certo l'uso dei termini "prezzolati" e "peggio delle puttane" non rientra nella continenza propria di un linguaggio e di una critica accettabile sotto tale angolo prospettico.

In sesto luogo, e seguendo il percorso logico seguito dalla Difesa, nel presente processo non hanno rilievo alcuno le vicende del Dr. S., più volte citate dal prevenuto come ragione per la quale è stato "postato" il messaggio su facebook.

Infatti la diffamazione verso il consiglio dell'ordine non è contenuta nell'accusa di aver "radiato" S. dall'albo degli Avvocati ma dalle espressioni usate subito dopo.

Peraltro si deve notare che il Dr S. non è stato "radiato" bensì "cancellato" e di certo tale differenza concettuale (non solo terminologica) non può sfuggire al prevenuto né a suo favore può essere usata la notizia pubblicata su di un giornale stampato a Genova che riporta la dicitura "S. radiato dagli avvocati" (giornale che non ha peraltro alcun valore di fonte privilegiata per quello che interessa ai fini del presente processo). Ancora: il processo che ha visto come imputato C. e che sarebbe stato sotteso (secondo la visione del C. medesimo) alla "radiazione" di S., non si è affatto concluso con una completa assoluzione di C. che è stato assolto unicamente dal reato di cui all'art. 368 c.p. e da quello di cui al capo e). Per il reato di cui al capo B) (368 c.p. commesso il 21.1.2008) vi è stata declaratoria di non doversi procedere per prescrizione, pronuncia che - come noto a molti - presuppone una valutazione di sussistenza del reato. Nulla è dato sapere poi della contestazione di cui al capo A) (e cioè di stalking ai danni di un magistrato genovese) poiché la fotocopia consegnata dalla Difesa non è completa. Ma - come detto - tali fatti non hanno alcun rilievo ai fini che interessano e, pur essendo sullo sfondo del presente processo, non costituiscono affatto un antecedente necessario per il reato in esame.

Le espressioni diffamatorie usate da C. esulano completamente dalla vicenda giudiziaria che ha visto protagonisti S. e C. e costituiscono una autonoma ed illogica aggressione verbale agli Avvocati Genovesi.

Peraltro, sempre seguendo le argomentazioni difensive, non si può non notare che il Dr. S. - in allora Avvocato difensore di C. - ha dismesso il mandato difensionale per ragioni tutt'affatto diverse da un'asserita pressione esercitata dal consiglio dell'Ordine o da altri soggetti (nominati in modo veemente dal prevenuto in sede di spontanee dichiarazioni). È sufficiente leggere la lettera di dismissione del mandato per comprendere che S. era in disaccordo con gli atteggiamenti tenuti da C. e che, in aggiunta, quest'ultimo si era negato reiteratamente al telefono, rendendo così impossibile l'attività defensionale. Ma di ciò, come si è detto, nulla importa per i fatti per i quali è processo, giacchè le ragioni per le quali C. ha diffamato il consiglio dell'Ordine possono tutt'al più rilevare ai fini della quantificazione della pena.

Infine di deve osservare che i fatti suddetti non possono essere riguardati nell'ottica di una - inesistente - tenuità ex art. 131 bis c.p.

È ben vero che C. è incensurato ma è altresì vero che ha ribadito con forza - anche in aula - i concetti posti alla base dei proprio comportamento diffamatorio; che le frasi sono state pubblicate sul sito di uno dei maggiori social forum al mondo e che la pagina di C. è pubblica, essendo in tal modo raggiungibile da un numero indefinito di persone; che ha immotivatamente rifiutato la transazione offerta dal consiglio dell'Ordine affermando ad alta voce in aula "io sono milionario ma i soldi non ve li do.... Verrò assolto"; che non vi è alcun atteggiamento non solo di contrizione ma neppure di comprensione della gravità del proprio comportamento.

C. deve dunque essere condannato per il reato a lui ascritto.

Nonostante il comportamento tenuto in aula e l'assenza di qualunque resipiscenza, è possibile concedere al prevenuto le attenuanti generiche in considerazione non tanto della sua incensuratezza quanto della non eccessiva gravità delle frasi diffamatorie.

Tali attenuanti sono da valutare prevalenti sull'aggravante contestata.

Valutati tutti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. ed in particolare il dolo intenso che ha mosso l'imputato, le sue condizioni di vita antecedenti e coeve al reato, i mezzi usati per la diffamazione e la gravità del danno provocato alla parte civile, si stima equa comminare, come del resto richiesto anche dalla Pubblica Accusa, la sola pena pecuniaria di Euro 1.500,00 da ridurre di un terzo ad Euro 1.000,00 in ragione delle attenuanti generiche.

Alla declaratoria di penale responsabilità consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

Non è invece possibile concedere i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p. essendo del tutto impossibile ritenere che il prevenuto si asterrà in futuro dal porre in essere ulteriori delitti anche della stessa specie di quello per cui si procede. C. è infatti aduso - come ben tratteggiato dal teste d'accusa C. - accedere ad internet per utilizzarne le potenzialità al fine di esprimere le proprie valutazioni in modo aggressivo ed oltraggioso. La semplice considerazione che nel certificato penale non risultano condanne definitive non è sufficiente a ritenere soddisfatti i canoni di cui all'art. 163 c.p.

Per quanto attiene, infine, alla richiesta di risarcimento della parte civile si osserva che, pur tenendo presente il generale principio che condiziona all'assolvimento dell'onere di allegazione e di prova il risarcimento dei danni di qualsiasi natura, anche non patrimoniale, si deve parimenti riconoscere che la prova del danno - pur nell'evocata accezione di "danno-conseguenza" - può anche essere data ricorrendo al notorio e alle presunzioni: per cui si può sempre presumere, in base all'id quod plerumque accidit, che la lesione della reputazione arrecata per mezzo di un veicolo di comunicazione col pubblico abbia arrecato alla persona offesa una sofferenza morale meritevole di ristoro; e l'automatismo del relativo nesso causale è di tale evidenza, da far sì che il relativo onere di allegazione possa ritenersi soddisfatto attraverso il richiamo (anche per relationem rispetto all'imputazione contestata) al contenuto e alle modalità di diffusione delle affermazioni lesive (cfr Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6481 del 2012).

Certamente nel caso in esame le frasi scritte da C. sono state lette da numerose persone, data la diffusione di facebook e la natura stessa del profilo (pubblico) del prevenuto. Oltre a ciò si deve tenere presente che C. ha usato espressioni di notevole impatto mediatico, definendo un intero consiglio dell'Ordine "prezzolato" e "peggio delle puttane". Da ciò consegue che il ristoro economico da riconoscere alla parte civile non può essere meramente simbolico, tenuto anche conto della più completa assenza di scuse da patte del prevenuto che - anzi - ha continuato ad accusare il teste V. e il difensore della parte civile anche durante l'udienza.

Si tima perciò equo determinare la somma del risarcimento in Euro 5.000,00.

Non vi sono ragioni per la concessione della provvisionale.

Segue infine la condanna alia rifusione delle spese di lite che, tenuto conto della limitata durata del processo, del numero si testi escussi e della modestia delle questioni fattuali e di diritto trattare si stima equo limitare ad Euro 2.000,00 oltre accessori.

P.Q.M.

Visti gli artt. 533 - 535 c.p.p. dichiara l'imputato responsabile del reato a lui ascritto e, concesse le attenuanti generiche ritenute prevalenti sull'aggravante contestata, lo condanna alla pena di Euro 1.000,00 di multa oltre al pagamento delle spese processuali.

Visti gli artt. 538 ss c.p.p. condanna l'imputato a risarcire il danno patito dalla PC che liquida equitativamente e definitivamente in Euro 5.000,00.

Condanna l'imputato a rifondere alla PC le spese di lite che liquida in Euro 2.000,00 oltre accessori.

Così deciso in Genova, il 11 gennaio 2016.

Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2016.


blog a cura di avv. Davide Tutino (avvocato penalista Catania esperto in reati informatici)


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